Isole

“Tutto il mio progetto scientifico infatti si fonda sulla convinzione che non è dato cogliere la logica più profonda del mondo sociale se non immergendosi nella particolarità di una realtà empirica, storicamente datata e datata, ma solo per costruirla come “caso particolare del possibile”, secondo la formula di Gaston Bachelard, ossia come tipo di configurazione in un universo finito di configurazioni possibili.”

Pierre Bourdieu, Spazio sociale e spazio simbolico, in Ragioni pratiche, il Mulino, Bologna 1995, p. 14

 

Il nostro tempo sembra dominato dall’incertezza. Anche se spesso manifestata all’interno delle retoriche della flessibilità, della molteplicità o della trasformazione, la forma dell’incertezza esercita una decisiva influenza culturale sulla società contemporanea, sui suoi meccanismi economici, sugli stili di vita ad essa associati, sulla personalità di chi ne è parte [Sennet 1998]. Un fenomeno che è probabilmente in parte interpretabile come reazione al diffuso determinismo del recente passato, ed alle visioni teleologiche della storia che esso aveva contribuito a formare, ma che è soprattutto il prodotto della delusione delle aspettative che questo stesso aveva generato. In particolar modo in quegli ambiti disciplinari in cui una convinta fiducia nella capacità del progetto, “decisione calcolante” in grado di prevedere in anticipo l’esito che produrrà [Cacciari 2000], ne aveva guidato direttamente l’epistemologia teorica e professionale. E l’urbanistica, intesa come “la scienza che studia i fenomeni urbani in tutti i loro aspetti, avendo come proprio fine la pianificazione del loro sviluppo storico” [Astengo 1966], è oggi senza dubbio uno degli ambiti di tale delusione.

Negli ultimi trent’anni almeno, a partire proprio dal tentativo da parte degli urbanisti di ripensare la relazione tra conoscenza e sua applicazione, o tra teoria e pratica [Schön 1983], abbiamo da un lato assistito all’intenzionale trasformazione della rappresentazione spaziale del progetto nella mera definizione delle regole che ne dovrebbero ordinare il processo di realizzazione, dall’altro ci siamo empiricamente resi conti che sono gli stessi strumenti concettuali e operativi usati nella costruzione della città moderna ad essere diventati inservibili nel contesto attuale, o quanto meno ad essersi rivelati sinora inefficaci. L’urbanistica è oggi un “campo” [Bourdieu 1972] aperto, che deve interagire con dinamiche sociali ed economiche i cui tempi e modalità sono difficilmente compatibili con quelli, molto più lenti, della costruzione fisica dei materiali della città e del territorio su cui vuole intervenire [Secchi 2002].

Mentre, almeno in Europa, la crescente digitalizzazione degli scambi e delle comunicazioni ha reso ormai obsoleta la concentrazione di popolazione e capitale di molte città, rendendone i limiti territoriali indefiniti e per alcuni aspetti irrilevanti, i luoghi delle decisioni si sono drasticamente concentrati in pochissimi centri che rispondono ormai a logiche di scala globale [Sassen 1991]. In questo contesto le tradizionali dicotomie città/campagna, centrale/periferico e urbano/non-urbano hanno progressivamente perduto di significato, ed è in fondo la stessa esperienza fisica dello spazio contemporaneo ad essere diventata in qualche misura incerta: uno spazio in cui tutto è urbano, ma di cui nulla ne definisce compiutamente l’appartenenza, prima ancora che la forma. Con la sempre più radicata convinzione che la sua comprensione sia possibile solo all’interno del complesso sistema di relazioni da cui tale spazio viene in-formato [Boeri 2000]. Ma se nell’ambito delle scienze esatte la complessità di un sistema è definita come il grado di difficoltà nel prevederne le proprietà, date le proprietà delle singole parti che lo compongono [Weaver 1948], nel campo degli studi urbani questo termine tende ad essere invece associato alla sua incontrollabilità, in quanto sono già le stesse parti che lo compongono a non essere traducibili in dati oggettivi.

In questo senso si sono nel frattempo coniate una serie di definizioni altre [Obrist 2000] nel tentativo di riuscire a descriverne efficacemente la condizione, allargando decisamente il campo degli elementi indagati, dei punti di osservazione e delle tecniche funzionali alla rappresentazione di città e territorio. In Italia più che altrove, questa consapevolezza ha generato una serie di esperienze e sperimentazioni particolarmente significative per lo studio della condizione contemporanea, con l’introduzione di pratiche narrative di osservazione e di descrizione in precedenza decisamente estranee all’ambito disciplinare urbanistico. Gli sguardi del fotografo, del cineasta, dello scrittore, come quelli di diversi artisti, studiosi e professionisti di altre discipline, si sono incrociati e confrontati con quelli del progettista nell’interpretazione della realtà urbana, di cui le parole e gli strumenti dell’analisi tradizionale non sembrano più sufficienti a fornire un’adeguata rappresentazione, perché ad essere definitivamente mutati sono tanto gli elementi osservati quanto i soggetti osservanti, in una inter-azione le cui potenzialità si trasformano esse stesse in oggetto dell’indagine [Stalker 1996].

L’esito di queste sperimentazioni è rimasto e rimane però quasi esclusivamente circoscritto al campo della ricerca accademica, o altrimenti veicolato come pratica artistica in quanto tale. Gli strumenti dei professionisti della progettazione urbana e territoriale, siano essi gli architetti, gli ingegneri del traffico o gli ecologi rimangono, inesorabilmente, quelli della zonizzazione funzionale di porzioni di suolo chiaramente delimitate, associate in maniera più o meno sofisticata ad una serie di indici, parametri e norme che ne definiscono gli usi e ne quantificano lo sviluppo ammissibile. Regolati a loro volta da politiche di indirizzo e di gestione elaborate ad una scala per forza di cose generale, in modo quindi indifferenziato rispetto alle realtà particolari cui saranno applicate, e i cui obiettivi risultano molto spesso già superati, o si rivelano ininfluenti, prima ancora del loro (eventuale) raggiungimento. Con un risultato che oscilla fra la frustrazione della popolazione, che interpreta questi strumenti come arbitrarie limitazioni ai propri diritti sull’uso dei terreni e degli edifici, ed il sistematico consumo del territorio e delle sue risorse collettive, esemplificato da una proliferazione esponenziale della superficie urbanizzata quale unico reale parametro di sviluppo, che sembra piuttosto dimostrarne l’inconsistenza di una reale capacità di controllo. Parafrasando Fritjof Capra, uno dei compiti principali degli urbanisti negli anni a venire dovrà allora essere quello di applicare il pensiero sistemico alla riprogettazione radicale delle tecnologie, degli strumenti di conoscenza e delle istituzioni sociali, “in modo da colmare il divario tra la progettazione umana e i sistemi ecologicamente sostenibili della natura” [Capra 1982]. Senza per questo, aggiungo, rinunciare ideologicamente ad immaginarne e rappresentarne la migliore delle possibili dimensioni spaziali.

Questo lavoro ha per oggetto una riflessione sul vasto tema della relazione tra conoscenza e azione nell’ambito delle discipline urbanistiche, in particolare riguardo ai rapporti fra la pratica professionale (e dunque i prodotti attraverso cui essa viene riconosciuta e agisce sul territorio), e i percorsi conoscitivi che ne definiscono gli obiettivi dell’azione (necessariamente frutto di un’interpretazione dell’esistente). Ovvero, più concretamente, ne ripercorre alcuni esempi nel tentativo di esplorare un possibile dialogo tra gli ambiti spesso contraddittori della reale gestione amministrativa del territorio e quelli della ricerca urbana contemporanea.

Senza l’ambizione di fornire soluzioni finite, né tantomeno una metodologia applicabile ad altri contesti, ci limitiamo qui a presentare una serie di esperienze dirette di tale contraddizioni, maturate dal 2003 ad oggi all’interno della pratica di uno studio di progettazione di paesaggio (Limesland), aventi tutte un fine comune: immaginare una condizione futura per la laguna di Venezia. Si tratta di “progetti” tra loro completamente indipendenti per materiali prodotti e soggetti coinvolti, e solo in questa occasione ripresentati metodologicamente all’interno di un discorso articolato in cinque parti successive, corrispondenti ai diversi linguaggi, alle diverse scale di indagine e ai diversi elementi considerati che di questi progetti erano le premesse; ovvero ai diversi “frame” [Schön-Rein 1994] che ne interrogano i contenuti. Un unico discorso che sovrapponendo modelli ad un primo sguardo tra loro non complementari, ne prova implicitamente ad esplorare le dinamiche di interazione, ovvero a verificarne la possibilità di coesistenza dei metodi di approccio e degli esiti formali. Possibilità che, in questo tentativo, è data dall’estensione temporale che sovrappone azioni diverse dotate di capacità di modificazione delle rispettive conoscenze, proprio perché sviluppate attorno ad uno stesso ambito territoriale. Ricerche accademiche, esplorazioni situazioniste, elaborati di piano regolatore e progetti paesaggistici, attraverso una rilettura a posteriori intesa come una riflessione nel corso di azioni successive, se l’espressione mi è consentita, provano a diventare ognuna condizione e ragione delle altre, estendendo il campo e il tempo di interazione delle conoscenze implicite [Crosta 1998] allo svolgimento di ognuna di esse.

Tali azioni, ora casi-studio, diventano così tappe, al di là della loro reale collocazione cronologica, di un percorso di comprensione di questo luogo. Un percorso assolutamente arbitrario, la cui traiettoria è il risultato di una mediazione obbligata tanto negli obiettivi che nei risultati, dipendente dal susseguirsi di occasioni professionali che, quasi sempre, escludono la possibilità di scegliersi clienti, incarichi o condizioni e risorse di ricerca. Ma l’efficacia dei casi esemplari proposti, in questa logica, non si misura tanto nell’effettiva realizzazione del “modello ideale” che ognuno di essi presuppone ed elabora [Jullien 1996], quanto soprattutto nella praticabilità in sé di un simile percorso, esso sì, progettuale. Un progettualità intenzionalmente a lungo termine che si configura come sintesi di saperi e strumenti [Morin 1999], e idealmente come pratica di una loro possibile condivisione. Dopotutto, quando finisce un progetto e quando ne inizia invece un altro?

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